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World Hijab Day: tra cultura, religione, moda e politica

Gli Hijab calpestati o addirittura bruciati sono il simbolo di una lotta quotidiana che ammiriamo da lontano perché, in fondo, non la sentiamo davvero nostra.




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Abbiamo avuto più volte, nel corso della storia, una riprova di quanto la disinformazione possa nuocere a culture ed economie.

Chi prevedeva il giro d’affari miliardario (nel 2023 pari a 361 miliardi di dollari secondo lo “State of the Global Islamic Economy Report 2018/19”) della modest fashion (letteralmente “moda modesta”, detta anche moda “halal”, ovvero quei capi ed accessori di tendenza che rispettano le norme coraniche ed un senso di pudore e modestia) è stato deriso, ma oggi ammiriamo la campagna ''Nike Pro-Hijab'', con la pattinatrice Zahra Lari testimonial della campagna pubblicitaria, in maniera quasi reverenziale.


Spesso, forse anche con i migliori intenti, noi occidentali tendiamo a pensare che quanto stia accadendo in Iran sia una lotta all’islamismo, anzi che un movimento femminile.

A causa dell’omicidio di Mahsa Amini l’hijab sta diventando, nella mente di molti occidentali, l’ennesimo simbolo di islamofobia. Questo fatto porta inevitabilmente ad una perdita dell’intrinseco significato di libertà ed espressione personale che rappresenta invece lo stesso. Ma quanto ne sappiamo davvero del velo? Molto poco.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di ricordare, sull’esempio della campagna di Sorgenia “#Always25November”, che ogni giorno è il World Hijab Day. È necessario stimolare curiosità ed informazione per far sì che questo simbolo, anche nella cultura occidentale, si riappropri del suo valore.




Non chiamiamolo velo islamico


Premessa: l’hijab NON è il velo islamico.

Innanzitutto vale la pena esplicare il fatto che l’hijab rappresenta solo uno dei tanti veli che gli occidentali, nonostante una contaminazione culturale, hanno difficoltà a differenziare.


Questo indumento è composto da una cuffia che raccoglie i capelli, tenendoli stretti, ed un velo che può essere legato al collo, al mento, o lasciato libero sul corpo. Il suo significato “nascondere”, rappresenta un atto di rispetto e decoro.

Innanzitutto è importante ricordare che l’usanza di portare il velo non nasce contemporaneamente alla religione islamica, ma era presente già prima nei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo.


Nel Corano non vi è infatti alcuna prescrizione riguardo all’obbligo di indossare il velo. Piuttosto, sia per uomini che per donne, è richiesto di vestirsi in modo decoroso, mantenendo nascoste alcune parti del corpo per questioni legate al decoro pubblico (seni e gambe, sia maschili che femminili, ad esempio).


Il velo, già dall'antichità, era un elemento distintivo delle donne di classi elevate. Di fatto le musulmane iniziarono a velarsi, come accade spesso per questioni sociali legate a moda e valorizzazione personale, per imitazione.

Inizialmente, infatti, erano solo le giovani altolocate della cerchia del profeta Maometto ad avere, come le patrizie, questo simbolo distintivo di onore.




La vera storia del velo


Iran

Contrariamente a quanto si possa pensare, nell’epoca pre-moderna l’hijab in Iran era addirittura vietatoParadossalmente l'utilizzo del velo da parte delle donne iraniane era di fatto un simbolo di protesta. Negli anni ‘30, ad esempio, questo veniva utilizzato per contrapporsi al regime dei Pahlavi, che aveva stabilito il divieto dell’hijab per le donne.


Nel 1936 l’allora regime dello scià Reza Pahlavi aveva emanato un decreto (Kashf-e hijab) che imponeva il divieto del velo per le donne e l’utilizzo di abiti più occidentali agli uomini.

L’obbligatorietà del velo in Iran risale alla Rivoluzione islamica del 1979, guidata dall’ayatollah Khomeini: l’hijab allora non rappresentava esclusivamente l'aderenza ad un dettame religioso, ma un simbolo politico della resistenza contro il regime monarchico dello scià Mohammed Reza Pahlavi. Indossando il velo si manifestava la propria contrapposizione al modello sociale e culturale filo-occidentale, ed alla modernizzazione, voluti dal sovrano.


Quando il sovrano fu costretto ad abdicare, subentrò il figlio Mohammad Reza Pahlavi, che eliminò il decreto del padre e lasciò piena libertà di scelta a chiunque di vestirsi come desiderato. Nonostante ciò l’utilizzo del velo comportava una serie di discriminazioni, come l’alta probabilità di essere escluse dagli incarichi pubblici nel paese.

Al tempo della guerra contro l’Iraq (anni ‘80), l’hijab divenne obbligatorio per tutte le donne: iraniane e straniere. É da questo momento che, come qualsiasi imposizione culturale, l’obbligatorietà di un gesto diviene un potente strumento di controllo della vita delle donne.


Il messaggio che che è fondamentale far passare, oggi, è che il femminismo islamico non lotta contro il velo, ma contro l’obbligo del velo.

È di estrema importanza sottolineare questo concetto, in quanto la sempre più incalzante protesta delle donne iraniane viene spesso raccontata in maniera erronea dai media occidentali. Il rischio, così, è quello di cadere in una strumentalizzazione atta ad alimentare e/o mascherare l’islamofobia. 

Il supporto maschile di mariti, fidanzati, fratelli, padri, parenti ed amici concretizza le proteste di strada come un atto di libertà sociale che va palesemente al di là di questioni religiose.



Afghanistan

L'adozione del velo come obbligo per le donne in Afghanistan è stata introdotta durante il regime Talebano nel 1996. I Talebani avevano imposto rigide norme islamiche nella vita pubblica e privata del paese, compreso l'obbligo per le donne di coprire corpo e volto in pubblico


L’obbligo estremamente rigido, in questo caso, prevedeva l’utilizzo del burqa, ovvero l’abito solitamente di colore nero o blu, che copre interamente sia la testa che il corpo della donna. All'altezza degli occhi è usualmente posta una retina che permette alla donna di vedere parzialmente senza esporre allo sguardo maschile gli occhi della stessa. Queste norme erano rigorosamente imposte e fatte rispettare tramite multe, arresti o addirittura punizioni corporali.


Nonstante le misure siano state allentate dopo la caduta del regime, l'adozione del velo rimane una norma rigida in molte parti del paese e le donne che non lo indossano possono ancora essere vittime di discriminazione o di pressioni sociali.



Arabia Saudita

In Arabia Saudita vige uno dei regimi più estremi e restrittivi, probabilmente uno dei più rigidi al mondo, per quanto concerne la capacità delle donne di esercitare i propri diritti e le proprie libertà politiche, sociali, economiche e civili.


Va specificato, soprattutto per gli occidentali, che la condizione di diseguaglianza a cui è soggetta la donna in Arabia Saudita non rappresenta la regola nel mondo islamico ma, al contrario, costituisce un’eccezionalità peculiare ed esclusiva del tessuto religioso, culturale, sociale e politico del paese. 


La monarchia saudita si regge sull’alleanza informale tra due componenti, quella politica e quella religiosa. Usi e tradizioni, matrimoni precoci e forzati sono solo alcune delle imposizioni presenti nel Paese. 


Il velo è stato introdotto durante il XX secolo come parte dell'affermazione dell'identità culturale e religiosa della nazione. La forma più comune di copertura per le donne saudite è il niqab, che copre il volto e il corpo, lasciando scoperti solo gli occhi. Prima dell'era moderna, le donne saudite indossavano abiti tradizionali che coprivano il corpo, ma non il volto.


L'introduzione del velo è stata influenzata dalla rivoluzione islamica in Iran nel 1979 e dall'ascesa del fondamentalismo islamico in tutto il mondo arabo. 


In questo paese il tessuto sociale è fortemente influenzato dalla cultura religiosa ma, nonostante ciò,  l'adozione del velo rimane controversa. Alcune donne lo vedono come un segno di oppressione e di limitazione della loro libertà individuale, mentre altre lo considerano un modo per proteggere la propria identità e la propria moralità nel rispetto delle tradizioni e delle norme culturali.


Oggi, il velo è diventato un simbolo distintivo della cultura del Paese e viene indossato da molte donne saudite, sia all'interno che all'esterno del paese. 



Pakistan

L'obbligo del velo in Pakistan è stato oggetto di dibattito e cambiamenti nel corso della sua storia. Il contesto socio-culturale e politico del Paese ha influenzato le norme riguardanti l'abbigliamento delle donne.


L'introduzione dell'obbligo del velo in Pakistan può essere ricondotta principalmente agli anni '80, durante il periodo di regime militare del Generale Muhammad Zia-ul-Haq. Nel tentativo di consolidare il suo potere e di attuare una politica di "islamizzazione" del Paese, Zia-ul-Haq implementò una serie di leggi ispirate dalla interpretazione conservatrice dell'Islam.


Le leggi riguardanti il vestiario femminile, inclusa l'obbligatorietà del velo, furono introdotte come parte di un più ampio pacchetto di riforme nota come "Islamization of Laws". Queste norme erano in linea con una visione più rigorosa dell'Islam e includevano anche restrizioni sulla vendita di alcolici e la promozione di principi islamici nei curriculum scolastici.

L'obbligo del velo in Pakistan è stato oggetto di critiche e resistenze da parte di varie fazioni della società. Mentre alcune donne hanno scelto di aderire volontariamente alla pratica, altri hanno contestato la coercizione statale nel determinare l'abbigliamento delle donne. Nel corso degli anni, con cambiamenti politici e sociali, ci sono state fluttuazioni nella sua applicazione e accettazione.


È importante notare che le dinamiche riguardanti l'abbigliamento e le pratiche culturali possono variare notevolmente all'interno del Pakistan, con diverse regioni e comunità che interpretano e applicano queste norme in modi differenti.


Il velo più comunemente indossato è l’hijab, segue il niqab ed, infine, c'è anche una minoranza di donne che indossa lo abaya, un abito lungo e ampio che copre l'intero corpo.


Questi diversi tipi di velo sono scelti dalle donne in base ai loro personali credi religiosi, culturali e sociali, e alcune scelgono di indossare un tipo più conservativo di velo rispetto ad altre.


Anche se in effetti in Pakistan molte donne utilizzano ancora burqa o il niqab, l'uso del velo varia in base alla regione, alla tradizione culturale e alla personalità individuale. Alcune donne potrebbero optare per un hijab che copra solo i capelli, mentre altre potrebbero scegliere di non indossare alcun tipo di velo.


Il tipo di velo più comunemente indossato è il dupatta, un lungo scialle di stoffa che viene avvolto attorno al capo e al corpo.

Nelle regioni del nord il burqa è molto comune, mentre in quelle del sud lo è maggiormente il chador, il lungo scialle di stoffa che viene generalmente indossato sopra gli abiti quotidiani a coprire il capo ed il corpo di una donna, lasciando liberi solo il viso e le mani.


Sono generalmente presenti, inoltre, anche altri tipi di veli, come il hijab e il niqab, che vengono indossati dalle donne più conservative o religiose.




Un esempio di hijab nella cultura pop


Nella cultura occidentale l’hijab ha tristemente assunto una connotazione negativa in quanto regolarmente associato, erroneamente, all’idea di sottomissione della donna e ad una mancanza di parità tra i generi. Questo tipo di associazione istintiva non riflette affatto i valori legati all’aspetto culturale di indossare un velo, men che meno quando parliamo dell’hijab. 


Per la maggior parte delle musulmane, in particolare quelle appartenenti alla seconda generazione di migranti che si trovano a vivere in paesi occidentali, il velo rappresenta un segno di appartenenza e di legame alle proprie radici, oltre che un credo religioso.

Spesso, come abbiamo visto sopra, diventa un vero e proprio accessorio moda da sfoggiare alla pari di una borsa firmata o un gioiello.


Un esempio contemporaneo, fresco ed accattivante che riesce a spiegare in chiave ironica la quotidianità della scelta legata all’indossare un hijab è l’opera a fumetti “Sotto il velo”. Si tratta di una striscia creata dalla giovanissima artista italo-tunisina Takoua Ben Mohamed, che racconta, appunto, la sua quotidianità di ragazza che ha liberamente scelto di portare il velo in Italia. Un gesto che, semplicemente, indica la libertà di poter essere se stessa.




Una battaglia per la libertà e la dignità


Mi sono chiesta a lungo come parlare di un argomento così delicato come l’hijab. Avrei potuto parlare di proteste accese, di mancanza di diritti femminili, come tutti i giornali occidentali, ma avrei sbagliato.


Avrei fatto esattamente il gioco della propaganda d’odio che continua ad alimentare stereotipi e razzismi nei paesi occidentali.  Certo, con questo non sto dicendo che l’hijab non sia, in alcuni casi, un simbolo di oppressione. Ma sarebbe stato sbagliato concentrare l’articolo su questo aspetto. Perchè è solo una parte del suo profondo e ricco significato.  Ora che hai attraversato una piccola panoramica culturale, che spero ti abbia aiutata a comprendere meglio alcune informazioni e dinamiche, possiamo passare ad un aspetto più attuale su questo argomento, riprendendo i movimenti femministi e le lotte per i diritti delle donne nei paesi che impongono l’obbligo dell’hijab. Manifestazioni e lotte alle quali, si, partecipano anche molti uomini.


L’hijab, emerge come uno dei simboli più dibattuti e controversi a livello mondiale. Per molte donne musulmane, il velo rappresenta un segno di fede, identità, rispetto e modestia. Tuttavia, per altre donne, esso può trasformarsi in un'oppressione, una discriminazione o addirittura una forma di violenza. Nei paesi islamici, il velo spesso viene imposto attraverso leggi, tradizioni, pressioni sociali e familiari, e talvolta anche con coercizione o minacce. Le donne che scelgono di non indossarlo o che lo portano in modo non conforme ai dettami religiosi o politici rischiano sanzioni, molestie, aggressioni, arresti, torture e, in alcuni casi, persino la morte.


Nonostante le sfide e i pericoli, molte donne decidono di ribellarsi all'obbligo del velo, combattendo per i propri diritti, la libertà e la dignità. Queste donne sono protagoniste di una resistenza potente, sfidano regimi autoritari, gruppi estremisti, pregiudizi e norme sociali. Utilizzano il velo come strumento di protesta, di provocazione, di espressione e di creatività. Lo indossano, lo tolgono, lo modificano, lo trasformano, lo mostrano, lo nascondono, lo bruciano, lo lanciano, lo fotografano, lo dipingono, lo cantano, lo scrivono.


Un esempio significativo di questa lotta è rappresentato dalle donne iraniane. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, che portò al potere l’Ayatollah Khomeini, furono obbligate a indossare il velo in pubblico. Nonostante le restrizioni e le limitazioni imposte alle donne iraniane nei loro diritti civili, politici, sociali ed economici, queste donne non si arresero e continuarono a resistere, rivendicando la libertà di scelta e di espressione.


Il movimento “My Stealthy Freedom”, ideato dalla giornalista e attivista Masih Alinejad, nato nel 2014, invitò le donne a condividere sui social media foto di sé senza velo in luoghi pubblici, sfidando il divieto e celebrando la libertà individuale. Questo movimento ottenne un vasto successo, raccogliendo milioni di adesioni in Iran e all'estero. Ha anche ispirato altre iniziative, come “White Wednesdays”, che invita le donne a indossare qualcosa di bianco il mercoledì per protestare contro il velo, e “Girls of Revolution Street”, riferito alle donne che utilizzano il loro velo come bandiera durante proteste pubbliche.


Un altro caso significativo riguarda le donne afghane, che, dopo il ritiro delle truppe americane nel 2021, hanno assistito al ritorno al potere dei talebani. Questo gruppo fondamentalista, che governò l'Afghanistan dal 1996 al 2001, imponendo una versione estrema della legge islamica, ha nuovamente obbligato le donne a indossare il burqa e ha vietato loro di partecipare attivamente alla vita pubblica. In risposta, le donne afghane hanno reagito con coraggio e determinazione, organizzando manifestazioni, proteste, scioperi e campagne per difendere i propri diritti e la dignità. Alcune hanno osato togliersi il velo in pubblico, altre hanno tagliato le proprie ciocche di capelli come segno di ribellione e libertà. Molte continuano a insegnare, studiare, lavorare, fare attivismo e documentare la realtà attraverso i social media, cercando anche il sostegno della comunità internazionale.


Le donne afghane rappresentano tutte un notevole baluardo di coraggio e ribellione per tutte. Alcune delle figure oggi più conosciute includono figure come Malala Yousafzai, la giovane vincitrice del Nobel per la pace ferita dai talebani per la difesa del diritto all'istruzione delle ragazze, Zahra Joya, fondatrice di Rukhshana Media che racconta le storie delle donne afghane, Fawzia Koofi, politica e negoziatrice coinvolta nei colloqui di pace con i talebani, Freshta Karim, direttrice di Charmaghz, una biblioteca mobile che porta i libri nelle zone rurali, e molte altre.


Questi esempi rappresentano solo una piccola parte delle molte donne nei paesi islamici che lottano per il diritto di indossare o non indossare il velo. La Tunisia, la Giordania, il Marocco, l'Egitto, la Turchia, l'Arabia Saudita, l'Indonesia, la Malesia, il Bangladesh, il Pakistan, l'India, la Francia e molti altri paesi vedono donne impegnate in una battaglia per i propri diritti. In alcuni di questi paesi, progressi e conquiste sono stati ottenuti grazie al sostegno di organizzazioni e movimenti per i diritti umani. In altri, le donne devono ancora affrontare ostacoli, resistenze, opposizioni e violenze che mettono a repentaglio la loro vita e la loro sicurezza. In nessuno di questi casi, però, le donne hanno mai pensato di arrendersi. Continuano a lottare con forza, passione e speranza, affermando la propria voce, identità e dignità. Il velo per loro non è solo un pezzo di stoffa, ma un simbolo di sfida, resistenza e cambiamento. 


Non possiamo permetterci, vista la nostra cultura occidentale e dall’alto delle nostre situazioni privilegiate, di giudicare questo simbolo. Anche dopo aver letto questo articolo (o mille altri), anche se forse alcuni concetti ti saranno più chiari, nessuna di noi ha la capacità di sentire nelle viscere cosa significa questo “pezzo di stoffa”. 




World hijab day: significato 


Ti ringrazio per aver letto questo articolo.


Il World Hijab Day, al contrario di ciò che molte persone pensano, non è nato per bandire l'hijab, o per sradicare i suoi significati religiosi, non è nato per essere una lotta del mondo occidentale all’insegna di una presunta libertà delle donne che nemmeno ci premuriamo di capire. Questa giornata è stata istituita per promuovere la libertà personale di espressione religiosa, la comprensione culturale e la solidarietà internazionale.


Se sei arrivato/a fin qui, fai parte di una cerchia di persone che non si accontentano di vivere questi fatti con gli occhi del privilegio di chi non viene toccato da dittature estreme, fai parte delle persone che, prima di mettere etichette, sono disposte ad investire il proprio tempo per informarsi.


Grazie a persone come te, il messaggio di questa giornata contro discriminazioni e pregiudizi, può proliferare ogni giorno e curare stereotipi discriminatori.

 


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