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Le parole che affossano il tuo posizionamento di brand (se sei donna)

Se non controlli le parole in modo strategico, diventano la gabbia che soffoca il tuo posizionamento high ticket.


donna triste appoggiata ad una sedia

Il linguaggio che sta uccidendo il tuo brand

“Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva”.

Lo diceva Michela Murgia, e non serve aggiungere molto: basta guardarsi attorno. Se sei una donna che prende parola – in un’intervista, in un meeting aziendale o perfino in un post su LinkedIn – ti accorgi presto che la tua voce viene percepita come un’anomalia.

In Italia, più che altrove, si muore di linguaggio. 


Non parliamo di morte fisica (anche se i femminicidi hanno numeri da bollettino di guerra e sono influenzati dal modo in cui l’opinione pubblica racconta questi eventi, e le donne in generale), ma di morte civile: quando ti negano il titolo professionale al femminile, quando ti riducono a “moglie di” o “mamma di”, quando un giornalista trasforma la tua competenza in una dote naturale. È la morte di autorevolezza, che per chi costruisce un brand high ticket equivale a un suicidio mediatico.


Perché il posizionamento non è solo “come ti vedi” o “come ti racconti”. È, soprattutto, come gli altri ti percepiscono, come ti nominano. Se il linguaggio che ti circonda ti riduce a un accessorio, allora il tuo brand viene spogliato della sua forza. Puoi anche avere la strategia più brillante, ma se vieni raccontata come “una donna” generica o “una mamma” prima che come CEO, l’opinione pubblica ti collocherà automaticamente in un gradino inferiore.


Capisci la trappola? Per un uomo, parlare è esercizio di leadership; per una donna, è ancora percepito come disturbo. E finché non impariamo a riconoscere le gabbie linguistiche e a ribaltarle, continueremo a essere ridotte al silenzio, a figuranti nella narrazione altrui.

Il linguaggio è un’infrastruttura di potere: saperlo maneggiare è la prima vera strategia di posizionamento high ticket.





Come i media affossano il tuo posizionamento high ticket

Facciamo un gioco: ricordate Samantha Cristoforetti alla sua prima missione nello spazio? Tutti i giornali la celebravano come “AstroSamantha”. Poi è diventata madre, e improvvisamente è stata ribattezzata “AstroMamma”. Un titolo che non troverete mai affibbiato al collega Luca Parmitano, padre di due figlie. Ecco come funziona la narrazione mediatica: la competenza maschile è professionale, quella femminile è accessoria, sempre subordinata a un ruolo parentale.


Un altro esempio? L’intervista di Giorgia Meloni su “Grazia”, uscita strategicamente proprio per l’8 marzo, non è stata un semplice incontro con una rivista femminile: è stata una scelta calcolata per controllare il messaggio e modellare le lettrici secondo una visione prestabilita. L’uso di un linguaggio paternalistico, che presume ingenuità nelle donne e le tratta come un pubblico da “educare”, non è un dettaglio: è uno strumento per veicolare un’immagine costruita ad arte, che rassicura, appiattisce il pensiero critico e limita la percezione del potere femminile.


copertina del magazine grazia con intervista a giorgia meloni

Studiare come leggere le notizie ci permette di riconoscere questi meccanismi: molte interviste, articoli e titoli non nascono per informare, ma per influenzare, per veicolare stereotipi e per guidare il lettore verso una certa interpretazione. Quando una donna che finisce sui media sceglie di adottare questo linguaggio, diventa un’ancella del patriarcato (donna che, consapevolmente o meno, diffonde messaggi o attua azioni e stereotipi che rafforzano la supremazia maschile, limitando il potere e l’autonomia delle donne): contribuisce a diffondere una visione claustrofobica della femminilità, in cui le donne vengono indotte a conformarsi a modelli limitanti invece di esercitare il libero arbitrio e il pensiero critico.


In pratica, un’intervista apparentemente “normale” può diventare un’operazione di manipolazione sociale, se le parole sono calibrate per costruire consenso e rassicurare un pubblico considerato fragile o ingenuo. Riconoscere questi schemi è fondamentale: solo comprendendo come e perché certe narrazioni vengono costruite possiamo difendere noi stesse, evitare di essere strumentalizzate e contribuire a un’immagine pubblica delle donne che sia autentica, potente e libera dagli stereotipi e, altra piacevolissima conseguenza, ottenere un vero  posizionamento etico e premium per il nostro brand.




Cosa centra tutto questo con il posizionamento del tuo brand?

Immagina questa scena: se sei un’imprenditrice che punta al mercato high ticket, hai costruito un brand premium studiano per 10 anni, hai sputato sangue combattendo contro stereotipi, banche che danno prestiti prevalentemente agli uomini, pregiudizi, ex capi che ti hanno molestata... Finalmente sei riuscita a costruire un brand high ticket posizionato, autorevole, arriva un media importante, ti intervista e… zac: nel titolo sei “una giovane promessa e mamma di due figli”. Complimenti: in un colpo solo hanno declassato il tuo posizionamento da autorità a mascotte familiare.














I media non sono neutrali, e il linguaggio che usano ha un impatto diretto sul valore percepito del tuo brand. Per questo devi imparare a negoziare i termini, a vigilare sui testi, a correggere la tua percezione mediatica. Non è paranoia: è strategia. Perché se lasci che siano gli altri a raccontarti con le loro parole, rischi di vedere sgretolato in un attimo ciò che hai costruito con anni di lavoro.


Un brand high ticket non sopravvive se viene narrato come una favoletta domestica. E i media, se non li educhi, ti racconteranno esattamente così.


Ecco perchè nel mio percorso esclusivo di brand journalism high ticket etico e femminista (DEA - élite brand academy) insegno a creare brand femministi dall’alto impatto mediatico: perchè tutto questo a te non succeda! 


Perchè il tuo brand, il tuo lavoro, abbiano il riconoscimento ed il posizionamento che meriti. Perchè la tua storia non diventi un modo per ingabbiare te ed altre donne in linguaggi che propagano stereotipi dannosi per tutte noi.












Le gabbie linguistiche da cui liberarti

Michela Murgia, in uno dei suoi capolavori, ovvero il libro “Stai zitta” ha fatto, come sempre, un lavoro incredibilmente potente: ha suddiviso per categorie le gabbie che ogni giorno ci limitano, quelle che bloccano la nostra carriera, le nostre ambizioni, le nostre speranze, le nostre intere esistenze. Ha espresso in modo meticoloso il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo, ed è fondamentale imparare a riconoscerle, per evitarle, segnalarle, per chiedere che vengano rimosse, e non solo quando vengono utilizzate su di noi, in un’intervista che ci riguarda. 


copertina del libro stai zitta di michela murgia

I media sono bravi a trasformare una tua bellissima intervista in spazzatura sessista, ma è tuo diritto, e oserei dire quasi dovere morale, vigilare su come viene trasmessa la tua immagine, quella delle colleghe, delle amiche, delle sconosciute. Perchè anche il modo in cui vengono descritte le altre donne si riflette su di te, e sui tuoi diritti.


Le principali situazioni che ci troviamo a vivere e che ci definiscono nella società, a livello linguistico, sono queste (prese dal libro sopra citato di Michela Murgia): 


  • Stai zitta. Se una donna discorre è chiacchierona, linguacciuta, pettegola, se ribatte è petulante, sguaiata, aggressiva. Si cerca di veicolare il messaggio che la voce delle donne sia stridula, che violenti l’udito più di quanto non facciano le parole degli uomini. Un gruppo di uomini che parla d’altronde è un consesso dialettico, un gruppo di donne è un pollaio.


    La rappresentazione femminile nei media italiani è in gran parte riservata a una creatura muta. La categoria della velina bella e zitta è talmente diffusa ed intrinseca nella nostra società che non serve citare esempi. Sono sicura che ne avrai in mente almeno un paio. Anche nei talk show, c’è una tale sproporzionalità nella possibilità di parola tra i sessi, che ormai gli spettatori sono stati educati ad associare l’autorevolezza a un uomo e alla donna un’eccezione che va motivata.


    Perchè lei è li? Quali sono le sue competenze? Con che diritto occupa quel posto? Con che diritti parla? Ma non è tutta colpa dei conduttori, dei produttori, o dei media. È colpa di Gesù, di Allah… Perchè parlare è un potere. E dare potere alle donne è sempre stata una problematica nei monoteismi. In un editoriale natalizio del 2020 un giornalista ha addirittura potuto scrivere che “l’unico femminismo che ci piace, è quello silenzioso della Madonna”. D’altronde, 

“Il silenzio è una virtù, ma solo se a praticarlo sono le donne” - Michela Murgia.

  • Ormai siete dappertutto. Vi sfido a contare quante firme di donne trovate sulle prime pagine dei quotidiani nazionali (o quante interviste rilevanti e ben scritte a imprenditrici donne). E ditemi se è vero che siamo dappertutto. Anzi, no, a volte ci siamo sulle prime pagine, per pezzi di costume o articoli di “pertinenza femminile”, come femminicidi, violenza di genere o gender gap. Difficile trovare le nostre voci su pezzi economici, se non quelli in cui le giornaliste sono le intervistatrici di un uomo, quindi le competenze non sono le loro. E se i media sono dominati dagli uomini, che tipo di informazioni può ricevere l’opinione pubblica? Non sarà mica un po’ falsata?















  • Come hai detto che ti chiami? Il riconoscimento al diritto personale e all’emancipazione della donna viene garantito quando questa, in casi di cronaca ed in particolare di meriti ed onorificenze ricevute, non viene descritta come “mamma di”, “moglie di”, “sorella di”, e altri aggettivi o diminutivi che ledono le sue competenze ed i suoi diritti all’autodeterminazione. Queste pratiche violano i diritti alla realizzazione personale della donna e alimentano una cultura discriminatoria che si propaga nell’immaginario collettivo, divenendo pratica culturale dannosa e lesiva.


  1. All’interno di queste pratiche rientrano l’utilizzo di terminologie infantilizzanti, come la “ragazzitudine”, un fenomeno per cui le donne sono eternamente ragazze, quindi eternmente apprendiste, stagiste, ci sono poi i riferimenti al mondo animale in richiamo ad usi e costumi.


  2. Il chiedere se siamo signore o signorine, perchè devono ricordarci che le nostre competenze vengono dopo il nostro status civile in rapporto ad un uomo.


  3. L’utilizzo del nome, al posto del cognome, in situazioni e contesti non confidenziali. Perchè l’uso del nome proprio utilizzato solo per le donne, così come l’articolo determinativo davanti al cognome, fa questo: riduce la distanza simbolica, esprime paternalismo, agevola l’uso del “tu” familiare e diminuisce l’autorevolezza della funzione ricoperta, portando la donna ad una condizione di principiante, con tutti i sottintesi che ne derivano. O fa credere che quella donna sia “la”, quindi l’unica, l’eccezione incredibile a quel contesto prestigioso di cui si sta parlando.


  4. Il maschile sovraesteso. Perchè il linguaggio è un’infrastruttura culturale che riproduce rapporti di potere, e l’imposizione del maschile sovraesteso, come dice la Murgia, è un modo per dire che state occupando abusivamente il posto di un uomo, ma che questa anomalia durerà talmente poco che non vale la pena scomodarsi a trovare o utilizzare un termine al femminile.



  • “Una donna”. È la dicitura più amata dai media, ma anche una delle più crudeli, perchè viene utilizzata come se fossimo un’entità collettiva uteromunita, perchè siamo una donna a caso, un’eccezione simbolica e simpatica, che fa sorridere teneramente per lo stupore di vedere “una donna” ricevere cariche, onorificenze, ecc. Questa terminologia cancella qualunque legame con la realtà, con l’identità, con le competenze della donna in questione.


  • Brava e pure mamma! Durante il covid è diventata famosa la foto delle dottoresse che hanno isolato il virus. A capo dell’ospedale in prima fila per le ricerche c’era un uomo. Ma nessuna persona si è sentita in dovere di specificare se fosse o meno un padre. Sapete questo che messaggio fa passare? Che la motivazione di uno scienziato sia la scienza, mentre di una scienziata sia l’essere madre. In sostanza, che gli uomini fanno qualcosa per un perchè, le donne per un per chi.


    Se non ha un per chi, bisogno temerla. e da li tutto il terrorismo psicologico attorno alle femministe. La “mammizzazione” nella società italiana è davvero all’apice. Ogni donna che raggiungerà un traguardo importante sarà definita con quel termine e, alla prima intervista, la domanda classica sarà: "Cos’hai dovuto sacrificare sull’altare dell’eccellenza, tuo marito o i tuoi figli?”.


    In generale, il lessico parentale di mamma, figlia, sorella, moglie, zia di.. è una delle forme di sessismo linguistico più utilizzata dai media italiani. 


Non solo, la mammizzazione è pericolosissima per il tuo business anche per un altro motivo: pensaci, cosa ci si aspetta da una mamma? Amore e cure incondizionate, che risponda sempre alle nostre necessità, mettendo da parte se stessa... ed è esattamente la proiezioni che le persone faranno sul tuo business: richieste costanti di sconti, mancata percezione di valore, clienti che si comportano come bambini e ti accusano di non aver raggiunto risultati quando loro stessi non hanno fatto nulla per ottenerli, potrei continuare all’infinito…





  • Spaventi gli uomini. Un uomo è sicuro di se, una donna è arrogante, un uomo è senza compromessi, una donna è una rompi cog*ioni, un uomo è assertivo, una donna aggressiva, un uomo è uno stratega, una donna è una manipolatrice, un uomo è autorevole, una donna prepotente, un uomo che dissente è una voce coraggiosa, una donna una rompip*lle saccente che si merita solo una sh*t storm. In base al sesso, il mondo ci giudica e ci tratta diversamente.


    Qualsiasi emozione provi, questa sarà il tuo intero modo di essere. Altre varianti del “spaventi gli uomini” sono il “stai calma”, “hai ragione ma sbagli i modi”. Questo in gergo viene definito “tone policing”, ovvero fare la lezioncina sui toni per spostare l’attenzione dalla sostanza alla forma, togliendo forza alle vostre parole.


  • Le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne. Purtroppo a volte è vero, ma è un fatto accuratamente studiato e voluto dal patriarcato. Solitamente viene scelta un’eletta, che diventa il miglior cane da guardia del patriarcato, così gli uomini non sono sempre costretti a ricorrere alla forza. Da sola farà carriera, ma il suo potere è un’illusione. Le è stato concesso perchè lo protegga, non perchè lo usi.


    Ed è il motivo per cui sui giornali conservatori, la maggior parte degli articoli contro i movimenti femministi sono firmati da donne, le cosiddette “ancelle del patriarcato”. Loro sono pericolose. Dovete imparare a riconoscerle per non essere le ennesime vittime di un sistema attentamente studiato per affossarci tra di noi. Se delle donne hanno contrasti tra di loro, anche leciti, e pacati, qualcuno li userà per nutrire la leggenda che le donne sono le peggiori nemiche le une delle altre. Questo è qualcosa a cui prestare molta attenzione quando si vuole veicolare il proprio messaggio sui media. 


  • Una donna con le palle. In questi casi il linguaggio è un materiale estremamente rivelatore: significa che se una donna fa qualcosa di eccezionale ha attributi maschili, che sono quelli dell’eccellenza, è una “uoma”!









Non sono solo parole. dobbiamo renderci conto di quanto sia importante quella che viene definita politica del linguaggio. perchè il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello che finisce per plasmarla. 


Ogni volta che accetti queste etichette senza reagire, non stai semplicemente subendo un insulto personale: stai contribuendo, spesso senza volerlo, alla demolizione del tuo posizionamento e di quello collettivo delle donne. Perché il posizionamento high ticket non vive solo di funnel e di strategie digitali: è anche, e soprattutto, una questione di linguaggio e di rappresentazione.


Se i media parlano di te usando gabbie verbali – “brava e pure mamma”, “donna con le palle”, “aggressiva”, “moglie di” – il danno non riguarda solo la tua carriera: riguarda l’intera percezione pubblica delle donne e dei loro business. Ogni volta che un titolo riduttivo passa inosservato, ogni volta che un’intervista ti descrive con parole che non scegli, quell’immagine entra nell’immaginario collettivo e influenza il modo in cui la società considera te e le altre.


Ecco perché, se vuoi un brand high ticket, devi conoscere queste gabbie linguistiche e imparare a liberartene. Devi sapere come funziona la narrazione dei media e come ribaltarla a tuo favore, perché il tuo valore non venga schiacciato sotto gli stereotipi.


Con il mio metodo di branding femminista, non lavori solo su logo e storytelling: impari a governare anche interviste, articoli e parole che usi e useranno per descriverti. Perché se lasci che siano gli altri a raccontarti, finirai per alimentare proprio quegli stereotipi che ti affossano – e insieme a te, affossano la voce di tutte le donne.


C’è da dire un’ultima cosa poi: spesso questo linguaggio è talmente interiorizzato che sono le stesse imprenditrici a descriversi con termini che affossano il loro stesso posizionamento. Sui tuoi social, nelle newsletter che invii, sul tuo sito web, nel modo in cui ti racconti a una nuova cliente... prova a prestare attenzione alle cose appena viste, e chiediti: “Le parole che uso, stanno affossando il mio posizionamento? Tolgono valore a me o al mio lavoro?”. 




Posizionamento high ticket e vantaggi importanti

Diciamocelo chiaramente: per un uomo, il posizionamento di brand è (quasi) sempre una questione di marketing. Per una donna, è anche un atto politico. Perché il modo in cui ti racconti e vieni raccontata non incide solo sulla tua carriera, ma sull’immaginario collettivo di tutte (soprattutto se vuoi essere un’imprenditrice che appare sui media).


Quando un giornale titola “la giovane mamma a capo della startup X”, non sta parlando solo di te: sta dicendo all’opinione pubblica che le donne al potere sono un’eccezione, simpatiche mascotte del patriarcato. Ogni tua intervista, ogni tuo articolo, ogni tua apparizione pubblica contribuisce a plasmare lo spazio sociale che verrà concesso alle donne che verranno dopo di te.


Ecco perché parlo di responsabilità collettiva. Se sei un’imprenditrice high ticket, se il tuo brand ha accesso ai media, hai anche il dovere di vigilare su come vieni raccontata. Non basta apparire: bisogna apparire bene, con le parole giuste, con un frame che non ti riduca a mero cliché.


Pensaci: ogni volta che accetti un’intervista senza correggere un titolo sessista, stai consegnando un’arma al patriarcato. Ogni volta che sorridi di fronte a un “complimento” paternalista, stai rafforzando lo stereotipo che farà si che ti arrivino clienti rompi p*lle che vogliono solo sconti e scorciatoie. Ogni volta che lasci correre, contribuisci alla narrazione che affossa non solo te, ma tutte noi.


Posizionarti come brand high ticket etico e femminista, in questo contesto, significa rivendicare il controllo del linguaggio per avere controllo sul tuo business. Non è un vezzo da intellettuali radical chic: è una strategia di sopravvivenza e un gesto politico d’insieme.




5 consigli per non affossare da sola il tuo posizionamento high ticket sui tuoi canali digitali 


1. Parla sempre come il tuo brand

Non improvvisare mai: prima di postare o inviare una newsletter, chiediti se ogni parola riflette la tua autorevolezza, la tua visione e la tua leadership. Evita termini diminutivi o troppo colloquiali che abbassano la percezione di valore, come “provare a”, “forse potrei” o “solo una piccola idea”. Mantieni il tono strategico e sicuro.


2. Evita diminutivi e termini auto-svalutanti

Scrivere “solo un piccolo consiglio” o “magari può servire” riduce la percezione di valore. Sostituisci con “un insight strategico” o “una soluzione concreta per le imprenditrici d’élite”. Anche nei post brevi, nelle newsletter o nelle didascalie Instagram, ogni parola conta per rafforzare autorevolezza.


3. Definisci le parole chiave del tuo brand

Così come usi il tuo lessico di brand nelle interviste, fallo anche online. Inserisci termini come “strategica”, “visionaria”, “innovativa”, “esperta riconosciuta” nei tuoi testi, nelle bio, nei titoli delle newsletter e nei post. La ripetizione costruisce autorità.


4. Controlla metafore e similitudini

Frasi tipo “lancio questo prodotto sperando che piaccia” o metafore troppo informali (“voglio spaccare tutto”) trasmettono insicurezza o superficialità. Usa metafore e immagini che elevano il valore percepito: numeri, risultati concreti, processi strategici, leadership. Abitua le persone a vedere il tuo brand accostato ad elementi premium: musica classica, interni barocchi, esempi che arrivano dal mondo dell’arte o dell’alta moda…


5. Evita l’auto-celebrazione vuota

Post e newsletter non sono vetrine per dire “guarda quanto sono brava”. Parla dei risultati concreti che il tuo brand genera, delle trasformazioni che vivi e che sei in grado di offrire alle tue clienti: dati, casi studio... L’auto-celebrazione senza prove abbassa l’autorevolezza.



Strategie pratiche per non farti fregare dai media

Ok, ma come si fa, concretamente, a non cadere nella trappola? Ecco una checklist pratica per proteggere il tuo brand high ticket dal linguaggio tossico che affossa il tuo posizionamento.


donna stile investigatrice retrò con giornale
  • Prepara interviste e live. Non lasciare che siano gli altri a decidere il frame. Stabilisci in anticipo i messaggi chiave e ripetili con fermezza, chiarendo le specifiche alla persona con cui ti rapporterai.


  • Controlla le parole. Se ti presentano come “moglie di” o “mamma di”, correggi con eleganza: “Sì, ma essendo questo un contesto lavorativo, preferirei essere presentata come CEO di X. Il mio ruolo di moglie non ha nulla a che vedere con i traguardi lavorativi per cui stiamo tenendo questa intervista”.


  • Vigila sui titoli. Non tutti i giornalisti accetteranno correzioni, ma chiedere di vedere il pezzo prima della pubblicazione è un tuo diritto professionale. E se ritieni che il titolo scelto da altri abbia leso i tuoi diritti, puoi chiedere scuse ufficiali, una rettifica sull’edizione successiva e persino procedere per vie legali.


  • Usa il tuo lessico di brand. Definisci tu le parole con cui vuoi essere associata: strategica, visionaria, innovatrice, autorevole. Inseriscile nel discorso o nella cartella stamopa, falle risuonare.


  • Non accettare diminutivi. Se ti chiamano per nome quando per un uomo avrebbero usato il cognome, segnala la differenza. Piccolo dettaglio? No: è un atto di posizionamento di branding high ticket.


  • Ribalta i complimenti tossici. Alla frase “sei una donna con le palle”, rispondi: “No, ho semplicemente competenze e visione. E il fatto che sia donna non rappresenta un’eccezione”.


Queste strategie non sono capricci: sono strumenti per mantenere intatto il tuo posizionamento premium. Perché se non proteggi tu la tua autorevolezza, non lo farà nessuno.




Il tuo posizionamento è una responsabilità collettiva

Vorrei chiudere questo articolo con una verità scomoda: quando comunichi non stai parlando solo per te stessa. Ogni volta che il tuo brand appare sui social, sui media, in radio, in tv, stai contribuendo a costruire l’immaginario collettivo della parola “donna”.


Se accetti che ti definiscano “ragazza” quando sei una professionista con vent’anni di esperienza, stai legittimando l’infantilizzazione tua e di tutte le tue colleghe. Se sorridi di fronte a “astromamma”, stai rendendo normale l’idea che un’astronauta valga solo se ha figli. Se non protesti quando ti chiamano per nome mentre i colleghi maschi sono chiamati per cognome, stai riducendo l’autorevolezza del tuo brand, della tua voce, e quella di ogni donna in sala.



Il posizionamento high ticket, in questo senso, diventa un atto collettivo. Non serve solo a farti vendere di più o a costruire status: serve a liberare linguaggi, a creare nuove narrazioni, a cambiare la nostra cultura. Ogni parola giusta che pretendi non è solo un investimento sul tuo brand, ma un mattone per la costruzione di un immaginario femminile più equo.

Come diceva Jerry Seinfeld:


“È sorprendente come il numero delle notizie che accadono nel mondo ogni giorno siano bastanti a riempire esattamente il giornale”.

Sai questo cosa significa? Che devi essere tra quelle notizie, devi arrivarci; e l’unico modo, è imparare ad usare la tua voce e le parole del tuo brand, in maniera rilevante per il tuo posizionamento. 


Se vuoi essere parte di un cambiamento collettivo insieme ad altre meravigliose donne, se vuoi che la tua voce smetta di essere silenziata, in DEA troverai la community giusta per te! Ti aspetto, prenota di qui la tua call, e facciamo sentire la tua voce unica!







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